Quello che non c’è più

Se vivi a Milano ti capita di andare a vedere com’è, da fuori, questo nuovo locale fighetto che hanno aperto vicino casa tua in una fabbrica abbandonata di cui poco tempo prima eri andato col tuo amico a fotografare le rovine.

 

E ora ci passate davanti in macchina e dite “dovremmo vedere una volta che effetto fa entrare in un posto così”. Come se non l’avessimo già fatto secoli fa e non ne avessimo già le palle piene da mò. Ma spesso ci si dimentica.
Mentre aspettate al semaforo di allontanarvi da quel posto su cui state ipotizzando il viaggio archeologico, vedi tre tizi che attraversano le strisce diretti lì. E sono libri aperti. Vedi tutta l’inconsapevolezza della morte che già da universitario ti annoiava a morte. E lo sai che se entrassi in quel locale dureresti massimo 10 minuti.
La preghiera è la nascita di un desiderio contro te stesso: “ti prego spazza via tutto, toglimi tutto quello che ho, distruggi tutto quello a cui ancora mi attacco. Fallo come vuoi. Con violenza se necessario. Fallo adesso. Che io non desideri più di godere ancora un po’ di quello che non c’è. Spazzami via.”
Che io non possa più dire nella mia vita “che palle!”
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