PUBBLICITÀ DELLA VERITÀ

Che cos’è l’arte, come farla e cosa chiederle.

Ho iniziato facendo una mostra sulla bestemmia, non sapendo davvero perché. Sapevo solo che la bestemmia era una manifestazione culturale importante e volevo farla entrare dentro la normalità, nel discorso artistico-culturale, volevo giustificarla, inserirla nella legalità e nella moralità. Poi ho capito che ciò che volevo fare era pubblicizzare il male. E ho inventato la pubblicità del male. Senza nessuna ironia. Una vera pubblicità dei cattivi. Ho iniziato con la mafia e avrei proseguito con i pedofili e tanti altri, ladri, assassini… Perché?
Per mostrare la verità: che c’è sempre qualcosa di buono in ogni cosa. Che ogni cosa ha una ragione per esistere, altrimenti non esisterebbe. Attraverso quella mostra ho trasmesso un concetto poetico: che l’arte è sempre pubblicità del male. L’arte è espressione del nuovo. È pubblicizzare nuovi concetti. Cioè esprimere nuovi concetti. L’espressione può essere fatta bene o fatta male, può essere inefficace o efficace. Quando è efficace, essa è una buona pubblicità. Non c’è differenza tra pubblicità e arte se non in quanto la prima si occupa di promuovere un prodotto nel mercato attraverso l’espressione di un concetto. Quando il prodotto viene tolto rimane solo l’espressione del concetto, che è ciò che noi chiamiamo arte. Questo concetto viene apprezzato in misura della sua novità, del nuovo punto di vista che porta, della sua utilità in termini di esperienza estetica o pratica. Ed è evidente che ogni novità è di per sé immorale o illegale. Tutto ciò che non è ancora morale è immorale, ed è chiamato male. C’è un motivo per cui per dire una novità bisogna essere coraggiosi. La maggior parte dell’arte non è nuova, non porta davvero novità e non shocka nessuno. Perché è dentro la morale, vuole essere “buona”, dalla parte dei “buoni”. Ciò che rompe è invece sempre avanguardistico. Il dadaismo è l’esempio più evidente. O le altre avanguardie. Quali difficoltà interiori ed esteriori ha dovuto affrontare Picasso per proporre quei suoi quadri mostruosi? Oggi siamo abituati, siamo assuefatti. Allora fu uno scandalo. Picasso, Duchamp, Munch, ma non solo i contemporanei. Tutti i grandi artisti hanno proposto ciò che non era ancora morale. E non solo gli artisti, tutte le grandi rivoluzioni non possono essere tali se sono legali. Se una rivoluzione fosse legale non sarebbe una rivoluzione. Le rivoluzioni fallite sono chiamate “atti di terrorismo”, o “golpe fallito”.

Allora, io chiamavo tutto questo “novità”.
Oggi mi sono accorto che si chiama “verità”. Non spiegherò oltre. Basta che sostituiate al termine novità quello di verità, e tutto sarà chiaro.
La verità è sempre immorale e spesso illegale.
Lo diceva Platone nel mito della caverna, lo dice il cristianesimo con la crocifissione di Gesù.
Non sempre, anzi quasi mai, l’arte mostra la verità. La maggior parte dell’arte è innocua. Non scalfisce la noiosa zona di comfort che ci coccola con le belle illusioni delle nostre identità fasulle. E parlo anche dell’arte spesso ritenuta più estrema o l’arte di condanna o di indignazione. Soprattutto quella di indignazione non scalfisce proprio nulla. Rimane dentro una noiosissima morale dei “buoni”. La verità non è di quelli che oggi chiamate “buoni”. Per citare per la miliardesima volta Dostoevskij: se Gesù tornasse oggi lo crocifiggeremmo di nuovo. Sarebbe il cattivo.
Ma l’arte deve essere espressione della verità. È ciò a cui ambisce.

Anche nel meno cosciente degli artisti, l’arte ambisce ad esprimere la verità. Solo, non ci riesce.
Quando ho iniziato la mia attività artistica, cioè quando ho iniziato a scrivere il mio diario, sin dalla prima rilettura, il mio pensiero è stato: “Troppo falso. Troppo letterario.” Ed è sempre stato così: una continua ricerca della sincerità, dell’onestà, della verità.
E, a chi dice: “la verità è relativa”, che da un certo punto di vista è ovviamente vero (e già questa affermazione dovrebbe convincerli che anche loro credono nella verità, almeno nella verità che la verità sia relativa). Rispondo che, quando affermo che io sento freddo, il mio sentire freddo è assolutamente vero. Non è confutabile da nessuno.
L’arte ha proprio questo livello di verità assoluta. Perché non ha a che fare con teorie o ipotesi, come la filosofia e la scienza, ma con la sincerità.
Chiediamo all’arte una cosa sola: “dimmi la verità”.
Chiediamo all’arte di mostrarci Dio.

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CRITICA DELLA COMFORT ZONE

La filosofia kantiana mostra i limiti della ragione. Ma ci stanno troppo stretti.

Se tratti i bambini da stupidi cresceranno stupidi.

Una volta stavo facendo una lezione di musica in una seconda elementare e spiegavo che l’orecchio umano può percepire soltanto un determinato intervallo di onde sonore. I suoni troppo bassi e i suoni troppo alti non riusciamo a sentirli. Questo significa che attorno a noi ci sono tantissimi suoni che noi non sentiamo. Tanti animali ne sentono più di noi, infatti possiamo chiamare i cani con un fischietto di cui noi non sentiamo il suono, ma loro sì. È così che funziona la radio. La radio riesce a percepire tutte le onde sonore che sono intorno a noi e ce le fa sentire, basta cambiare canale.

Alla fine della lezione, un bambino si avvicina alla cattedra e mi chiede: 

“maestro, ma anche in questo momento ci sono tutti questi suoni attorno a noi?”

“Certo.”

“Incredibile.” E se ne torna al posto con lo sguardo che doveva avere Einstein quando ha scoperto la teoria della relatività.

Questo è proprio quello che dice Immanuel Kant: siamo prigionieri della nostra mente.

Vediamo, sentiamo, tastiamo, annusiamo, gustiamo solo quello che i nostri sensi limitati ci fanno vedere, sentire, tastare, annusare, gustare. E pensiamo solo ciò che la nostra mente limitata ci consente di pensare.

Le cose che possiamo percepire Kant le chiama fenomeni, quelle che non possiamo percepire, e che non sappiamo neanche se esistano con certezza, le chiama noumeni. 

La scoperta di Kant è che l’uomo non conosce le cose, ma solo il modo in cui le cose sono tradotte dai suoi sensi. 

Io non vedo questa sedia, ma il modo in cui la vedo.

Nessuno può sentire un ultrasuono, perché non siamo fatti per sentirlo. 

Siamo condannati a non sapere com’è fatto davvero il mondo. 

Siamo condannati a vivere in un mondo illusorio.

Almeno finché ci affidiamo alla filosofia.

Ci sono due tipi di filosofi: i filosofi veri e i filosofi da bar. I primi parlano solo dei fenomeni, cioè di cose di cui possono fare esperienza. I secondi parlano di tutto, senza limiti. 

I filosofi veri definiscono bene ciò di cui stanno parlando. Per esempio, se parlano di Dio, prima definiscono chiaramente che cosa intendono per Dio. I filosofi da bar se parlano di Dio, danno per scontato che tutti intendano ciò che intendono loro. E allora nascono mille litigi. Wittgenstein diceva che i litigi sono in realtà apparenti, essi nascono quando si crede di parlare della stessa cosa, ma in realtà ognuno intende una cosa diversa. I litigi nascono da fraintendimenti.

Crediamo di vivere nello stesso mondo degli altri.

E invece ciascuno vive nella propria cella.

Però condividiamo la stessa prigione.

Quando ero giovane e andavo di notte a bere e fumare in spiaggia con gli amici mi succedeva spesso di condividere con loro un pensiero: “E se domani il sole non sorgesse? Sarebbe bellissimo!”

C’era un filosofo molto acuto di nome Hume che diceva più o meno la stessa cosa: fino ad oggi ho fatto esperienza del fatto che ad ogni causa segue un effetto, ma chi mi assicura che tra un secondo questo si verificherà ancora? 

Cioè, Hume diceva che non c’è nessuna prova del fatto che il mondo vada come lo abbiamo visto andare fino ad oggi.

Kant risponde che ciò che ci assicura della regolarità del mondo è la nostra mente, che è fatta in modo da vedere le cose sotto la prospettiva di causa ed effetto, spazio e tempo.

Ritorna la tautologia: non possiamo vedere le cose diversamente da come le vediamo.

La prigione siamo noi.

La prigione ci sta ancora più stretta se pensiamo che anche il modo in cui vediamo la nostra mente è solo il modo in cui la mente vede se stessa, anche la mente è solo un fenomeno. Tutta questa teoria kantiana non è altro che un fenomeno.

Siamo come personaggi di un video gioco in un mondo virtuale.

Ma voi direte: se il modo in cui vedo il mondo è un’illusione, perché quello che faccio funziona? Perché riesco a camminare, a sedermi su una sedia o a organizzare una partita di calcetto?

Mi viene in mente Filippo II. Filippo II era il re di Spagna nel 500. Egli aveva una visione della politica ormai antiquata per i suoi tempi. Mentre tutta l’economia europea si avviava verso il commercio e l’industria, egli favoriva il latifondo di tipo feudale; mentre tutta l’Europa andava verso la tolleranza, lui cacciava protestanti, ebrei e musulmani, abili commercianti e manifatturieri, perché diceva che non avevano il sangue limpido; mentre l’Europa investiva nella tecnologia militare, lui costruiva un esercito numeroso e lento e grandi e lente da guerra. Di conseguenza la Spagna andò in bancarotta e perse tutte le guerre. 

Perché Filippo II, in quarant’anni di regno, continuava ad avere una visione del mondo così antiquata se tutti i dati gli dimostravano che sbagliava? 

In realtà per Filippo tutto ciò che accadeva aveva un senso, il senso che lui gli dava. I latifondi erano una cosa buona, il popolo che si lamentava era una cosa normale, le sconfitte erano messaggi di Dio. Tutto rientrava nella sua visione del mondo. 

Anche la nostra vita è piena di sofferenza, di delusioni, di problemi, e questo è dovuto al nostro modo limitato di vedere il mondo. 

Quindi la risposta alla domanda “come mai il mio modo di vedere il mondo funziona” è: in realtà non funziona.

C’è una vignetta di Andrea Pazienza in cui c’è una mosca che continua ad andare contro una lampadina e dice: “vita di merda!”.

Allora cosa fare?

Dobbiamo rassegnarci a vivere in questa prigione? Dobbiamo continuare a sbattere contro la lampadina? Dobbiamo continuare ad essere personaggi e mai giocatori?

Kant stesso afferma che la ragione ha un anelito insopprimibile ad andare oltre il fenomeno, ma è anche un uomo molto cauto. In un celebre esempio, egli dice che la ragione è come un’isola, l’isola delle certezze fenomeniche. Non conviene avventurarsi nel mare aperto del noumeno dove tutto è incerto e dove ci si potrebbe perdere.

Noi dobbiamo ringraziare Kant per averci fatto vedere i limiti della filosofia e della ragione, ma non siamo anche obbligati a rimanere nella sua zona di comfort.

Kant dice che non si può uscire dalla prigione.

Ma, come in ogni sistema, anche in questo c’è una falla. 

La prigione di Kant è la nostra ragione, cioè la filosofia.

E qui sta la via d’uscita: mica esiste solo la filosofia.

C’è un vecchio film intitolato “Papillon” in cui due amici sono condannati a vivere per tutta la vita su un’isola circondata dal mare. Uno dei due sta organizzando una fuga molto pericolosa gettandosi sulle onde dagli alti scogli su una zattera precaria.

L’amico gli dice: “sai che morirai.”

Papillon risponde: “che importa?”

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